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Un acchiappasogni per vivere la realtà

Costruire il mio primo acchiappasogni è stata una bella esperienza, durante il laboratorio condotto di Mirella Treves, domenica scorsa, durante il NWE di ICF Italia. Ne è scaturita un’onda lunga, che mi porta a scriverne adesso, dopo una settimana. Il tempo del coaching, infatti, non è solo quello della sessione, ma anche quello che viene dopo, quello della sedimentazione dei pensieri, dei flashback, delle emozioni e delle sensazioni che ti restano appiccicate addosso e ti guidano verso la riflessione e, poi, verso la consapevolezza. Già l’inizio del laboratorio faceva presagire qualcosa di profondo: ognuno poteva dedicare a se stesso alcuni minuti di silenzio, passeggiare o sostare a contatto con l’aria, il sole, il prato, le piante, entrare dentro il proprio spazio personale, sacro, fatto di silenzio e concentrazione. Poi…via alla costruzione! Ho cominciato formando un cerchio con un ramoscello e ho proseguito, cercando di formare la struttura intrecciando un filo colorato e prezioso attorno e all’interno del cerchio, come fosse la tela di un ragno. E’ un filo speciale, ci ha detto Mirella donandocelo, ricavato dal budello dei bisonti, un filo che proviene direttamente dai nativi americani, il segno tangibile dell’incontro che lei stava mediando fra la loro cultura e la nostra. E poi? Bisognava arricchire questa trama sottile con perline, piume colorate, conchiglie, fili di lana, di seta, piccoli oggetti che ognuno aveva portato e messo in totale condivisione sui tavoli … Non avevo aspettative, non mi ero preparata, volevo vivere quel momento nuovo in modo nuovo, come quando mi immergo in uno specchio d’acqua sconosciuto, con curiosità e timore. Il filo mi scivolava, poi lo riprendevo, la trama sembrava salda, ma poi non lo era. E gli ornamenti? Ma come? Io ho sempre avuto senso estetico, gusto, creatività, senso del colore, ho fatto tanti laboratori con bambini, adulti, anziani … Invece ero impacciata, la magia creativa che di solito ad un certo punto arriva, non arrivava, eppure … continuavo a sentirmi attratta dalla voglia di costruire, volevo lasciarmi trasportare da quella corrente, dal momento. Quando il tempo è scaduto non ero soddisfatta del risultato e mi sono resa conto dopo che il senso non era il risultato dell’oggetto ‘venuto bene’, ma l’esperienza del contatto con quell’oggetto in divenire, che si andava formando tra le mie mani. Il mio stato d’animo era la sospensione, fluttuavo nel vento caldo, ancora alla ricerca di qualcosa, senza sapere che cosa. Poi sono arrivati dei doni, inaspettati : due piume portate dal vento, un sacchetto con una frase e piccoli oggetti per ognuno di noi da Mirella, ciondoli colorati da una bimba dolcissima, una conchiglia da un’amica …
Il mio acchiappasogni aveva bisogno di tempo, il tempo dell’accettazione del nuovo, il tempo dell’esperienza, dell’azione, della generosità, dello scambio e non del confronto, il tempo del respiro e della costruzione. Così il giorno dopo, con calma, l’ho ripreso in mano, l’ho irrobustito e arricchito con ciò che avevo e con ciò che avevo ricevuto. Adesso è qui con me e mi comunica energia, bellezza, serenità e spinta al futuro, come fanno sempre i bei sogni. L’importante è … acchiapparli! E grazie a Mirella per l’esperienza.

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essere o fare
Essere o fare?

ESSERE O NON ESSERE? O PIUTTOSTO … FARE?

E’ solo un incipit scherzoso, la riflessione che mi attrae non è tanto sul senso del coraggio di vivere o di morire, come succede ad Amleto nel suo dilemma, quanto piuttosto su come decidere di vivere la nostra vita, secondo me troppo spesso orientata alla produttività, al risultato, alla performance, insomma in una parola, al fare, prima ancora che all’essere.
essere o fareQuante volte, nella nostra giornata, ci diciamo la quantità di cose dobbiamo fare? Appena aperti gli occhi sul nuovo giorno facciamo mentalmente l’elenco delle azioni da compiere, le cose da sistemare, da organizzare, da contare, da produrre, da programmare, da amare o da odiare, da sopportare, da subire, a seconda delle giornate.
Eppure è strano, se ci pensiamo, come facciamo a fare se prima non siamo? Lo dicono le parole che ci definiscono: siamo esseri umani, cioè vivi, che esistono, che sono nella vita …
Non so se anche a voi succede, ma spesso a me capita di dimenticarlo.
Ed è proprio questa la riflessione che voglio condividere con voi, che può anche diventare un esercizio, da fare in silenzio, per poterci fermare alcuni minuti e individuare in modo lucido e preciso chi siamo, i nostri punti di forza, ciò su cui possiamo contare.
Io sono … Solo due parole, molto importanti, che danno ad ognuno di noi la possibilità di proseguire con aggettivi e sostantivi per stilare un elenco e vi assicuro che può diventare lungo e molto interessante, da leggere e rileggere e completare …
La riflessione è dunque sull’attenzione al valore dell’essere prima del fare, perché ogni persona è molto di più del suo fare, ma è il fare che appare agli altri. L’essere è dentro di noi, è il nostro tesoro, è un insieme di pensieri, emozioni, conoscenze, memorie, esperienze, vissuti, scoperte, conquiste, spazi di luce ritrovata dopo momenti di buio o di incertezza, un nucleo di energia che ci permette di vivere, di respirare e sta a noi, innanzitutto, il compito di vedere chi siamo, prima ancora di aspettarci di essere riconosciuti dagli altri per le nostre azioni, cioè il nostro fare, appunto.
L’esercizio di self-empowerment (la dichiarazione a se stessi di essere potenti) parte da qui, da questo preciso istante di presa di coscienza che il mio essere non dipende dal giudizio o dallo sguardo dell’altro, responsabile, collega, compagno, parente, figlio o chi volete voi.
Io sono …
Io sono ciò che ho vissuto finora e ciò che costruisco ogni giorno, io sono la mia personalità, un essere umano, con un codice genetico unico e irripetibile, sono un’anima, io sono le mie competenze, la mia affidabilità, il mio approccio al lavoro, alla famiglia, all’amicizia, alla cura delle relazioni, sono grata alla vita per ciò che ho e sono io a dare un senso ad ogni situazione e ad ogni dettaglio.
Anche quando sbaglio, vedo l’errore, ci rimango male … poi vedo che io non sono il mio errore, io sono un essere che ha bisogno di fare errori per imparare ed evolvere.
Io sono ciò che scelgo di essere, in ogni qui ed ora.

Per me è stato d’ispirazione il Quaderno d’esercizi per l’autostima, di Rosette Poletti e Barbara Dobbs, Edizioni Vallardi, credo possa essere molto utile per allenarsi. Tentar non nuoce …

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Parole e stress

È STRESS O ME LA STO RACCONTANDO?

“Che stress, che stress, che stress di giorno, ma la notte no!” cantava Renzo Arbore nel suo programma Quelli della notte, che tutti i nottambuli non proprio giovanissimi come me ricorderanno. Invece credo che spesso, purtroppo, persino la notte possa diventare fonte di questo maledetto stress, soprattutto quando rimuginiamo quello che non ci è andato bene durante il giorno, oppure le aspettative deluse, o ancora gli errori, le paure oppure quando, addirittura, immaginiamo lo stress che ancora non c’è, ma siamo sicuri che arriverà, per un colloquio, una telefonata che dobbiamo fare il giorno dopo … Aiuto!
Anche quando, finalmente, arriva l’intuizione giusta, perfetta, azzeccata, che aspettavamo da tempo e ‘tutto’ si sistema dura poco, torniamo allo stress in fretta, c’è già un altro problema da risolvere! Oddio!
Stress, deriva dall’inglese stress, cioè sforzo, dal francese antico estrece, cioè strettezza, oppressione, dal latino strictus, stretto e ancora dall’inglese distress, angoscia, dolore …
Parole che richiamano emozioni, a loro volta collegate a situazioni conosciute, come la preoccupazione per l’imprevisto, la paura e l’ansia per la mancanza di tempo, la difficoltà a gestire il cambiamento, la flessibilità, l’accettazione di quello che non va, le relazioni non sempre facili. Parole, che a noi esseri umani servono per esprimere quello che viviamo.
Allora sono proprio le parole che, immediatamente, sanno raccontare quello che proviamo e pensiamo, in questo caso lo stress, prima ancora di aver assimilato la definizione dell’OMS, che lo descrive come “una reazione che si manifesta quando una persona percepisce uno squilibrio fra le sollecitazioni ricevute e le risorse a disposizione”. In sostanza, quando percepiamo che è troppo e potremmo non farcela, senza esserne completamente consapevoli, cominciamo a dirci alcune frasi, sempre quelle, poi le ripetiamo, per minuti, ore, giorni, settimane, mesi, anni! Ad esempio: – Non ce la faccio – Così non posso – E’ troppo dura – Ma come faccio? – Oggi la gente è fuori di testa …
Il mio amico Massimo, esperto di comunicazione, spesso pone l’accento sul legame fra parole ed emozioni. Banale? Mica tanto. Provate a dirvi ad alta voce le frasi che avete letto sopra e poi provate a trasformarle e a dirvele ancora, con altrettanta forza: – Ce la faccio! – Io posso farlo – Dai, è semplice – Ho trovato il modo per saltarci fuori – Ci sono tante persone in gamba in giro – … Cosa provate nella prima situazione? E nella seconda? Io sento che pian piano mi metto dritta sulla sedia, mi rassereno, ho più fiducia in me e negli altri.
Studiando e approfondendo, ho scoperto che, in gran parte, le parole provengono dall’inconscio e scaturiscono in modo automatico, così tanto fluidamente che noi pensiamo siano vere. Dirsi io posso, soprattutto per noi donne, da secoli educate a pensare di essere meno capaci degli uomini, provoca un senso di padronanza, di sicurezza, di potenzialità in atto. Quindi parole positive ci danno emozioni piacevoli, ci sorprendono, ci risvegliano, ci provocano a scoprire le nostre potenzialità. Allora lo stress e l’ansia dipendono in gran parte da ciò che ci diciamo, non dal contesto in cui siamo. Ho deciso: io posso provare a raccontarmela in un modo un po’ diverso dal solito,
(Per nutrire l’anima: Eugenio Borgna, Parlarsi, Einaudi – Per fare qualche esercizio: Domenico Di Lauro, La resilienza, Xenia tascabili).

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La resilienza

SIAMO TUTTI POSITIVI ALLA RESILIENZA!

Il periodo che stiamo vivendo ci sta ponendo di fronte a grandi difficoltà e, tuttavia, credo che ci stia facendo sentire davvero, forse per la prima volta dopo tanti buoni propositi, parte dello stesso mondo, perché questa pandemia non fa distinzioni di ceto, etnia, religione o titolo di studio, ci colpisce come donne e uomini abitanti del pianeta e ci pone di fronte agli stessi problemi, interrogativi, sfide e, se lo vogliamo, alle stesse opportunità. Mai come in questo periodo abbiamo sentito nominare la parola resilienza, da alcuni amata e da altri snobbata o, addirittura, odiata. E’ una parola usata in fisica per parlare della proprietà di alcuni materiali di sopportare urti e colpi improvvisi senza rompersi, poi adottata anche nell’ambito psicologico per parlare di una capacità umana che, se attivata, innesca un processo di crescita e di evoluzione personale secondo me molto interessante, perché implica la creatività umana, a seconda delle risorse che ogni persona scopre di avere e decide di mettere in campo in un determinato contesto problematico.
Vivendo la quotidianità, dal lavoro alla famiglia, direi che ci vengono in mente una quantità di situazioni nelle quali mettiamo in atto la resilienza, anche senza esserne consapevoli. La riflessione che voglio condividere è dunque sull’approccio alla resilienza, un processo lungo, paziente e non facile di costruzione e ri – costruzione di un equilibrio in situazioni nelle quali l’equilibrio di prima si è spezzato. Si va in crisi, dal greco krisis, cioè scelta. Ci dobbiamo assumere la responsabilità di imboccare una strada piuttosto che un’altra, perdendo in modo irreversibile qualche cosa per acquistare qualcos’altro.
Sintetizzando molto, si tratta di un processo in cui possiamo distinguere alcune fasi: identificazione del problema; accettazione della situazione che non si può cambiare; accettazione del nostro sentirci vulnerabili e della sofferenza che proviamo; comprensione dei nostri limiti; comprensione di avere un problema e di non essere noi il problema e, a questo punto, riflessione su quali risorse mettere in campo per agire, per continuare a vivere non da vittime, ma da protagonisti.
Nella nostra convivenza con il Covid 19, e anche nel nostro nuovo quotidiano in azienda o in famiglia, credo che la resilienza possa essere una via, se guardata con la curiosità di conoscere e approfondire questa dimensione ancora in parte sconosciuta, perché racchiusa nella profondità dell’intelligenza e della capacità di reagire di ognuno. Mi piace concludere con questa frase di Elena Malaguti, attualmente fra i maggiori esperti di resilienza in Italia:
– La resilienza appartiene a tutti i colori dell’arcobaleno, non è bianca o nera, non significa acceso o spento, pulito o sporco, giusto o sbagliato. Intendo la resilienza come quel motore possibile che permette la fuoriuscita di nuove energie, che integrate con le fatiche aiutano il processo di crescita e di miglioramento della qualità di vita del singolo e della comunità. [… ] L’espressione imparare a fare, a dialogare e a gestire le cose difficili nell’era che stiamo vivendo dovrebbe diventare un imperativo –

(Per approfondire e allargare lo sguardo agli studi fatti sulla resilienza vi consiglio di leggere Elena Malaguti, Educarsi alla resilienza, Erickson, 2005.)

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